La parola allo psicologo

GENITORI ADOTTIVI E  LEGAME DI ATTACCAMENTO

Oggi inizieremo a parlare dei legami di attaccamento e del tempo che può essere richiesto per amare e sentirsi amati.

La più grande paura dei genitori adottivi infatti  è quella relativa al voler bene.

Imparare a voler bene a un bambino non nato da loro, essere amati da un bambino che diventa loro figlio.

La dimensionefamily-1663241_1920 dell’imparare a voler bene a un bambino non nato da loro è poco esplorata. Quasi tutti i genitori parlano di un colpo di fulmine, un innamoramento subitaneo, in realtà non sempre è così ma c’è una sorta di tacita regola che prevede di non poter ammettere di non essersi subito innamorati, dopo tutta la fatica fatta per diventare genitori. Sarebbe come confermare che c’è qualcosa che non va in noi stessi.

Nella realtà, così come accade anche ai genitori biologici, che hanno lo stesso tabù, non è automatico l’innamoramento.  Ci può volere del tempo perché per quanto si sia desiderato incontrare il bambino che diventerà nostro figlio, il bambino in carne ed ossa è sempre diverso da quello immaginato.

Perché scrivo questo e non parlo solo della gioia dell’incontro?

Perché penso che sia importante fare i conti anche con il senso di disorientamento che un genitore può provare nel momento in cui non prova quello che aveva immaginato o che gli era stato detto che avrebbe provato.

Quel disorientamento magari è lo stesso che prova il bambino, proiettato  in un ambiente completamente diverso da quello che aveva conosciuto fino a quel momento.

Ma nessuno può dire come si sente veramente: il bambino non può farlo di sicuro, si sente nelle mani dei due adulti che lo hanno accolto e tutti i suoi sforzi sono nella direzione di capire che cosa ci si aspetta da lui. Poi magari il disagio si esprime in altro modo (disturbi del sonno, enuresi ecc.)

L’adulto non può esprimerlo perché sarebbe riprovevole e se magari la scelta adottiva non era stata approvata dal contesto familiare, a maggior ragione sente la necessità di dimostrare che le cose “vanno alla grande”.

Alla fine invece potersi dire reciprocamente siamo sulla stessa barca, ce la faremo insieme, è  il filo di Arianna che può portare fuori da questo labirinto di confusione.

Qui interviene molto la dimensione del tempo: molte volte dico alle coppie in attesa che ci vogliono almeno 4 anni perché il legame di attaccamento inizi e metta radici. Poi lo ripeto quando arrivano i bambini perché è un’informazione che inspiegabilmente cade nel dimenticatoio.

E’ importante invece mentre magari si è nella crisi del secondo anno dall’arrivo del bambino, ci si sente impotenti perché sentiamo che il legame non è ancora forte come vorremmo, poter pensare che siamo arrivati alla metà dell’opera ma che occorre ancora del tempo.

Avere fiducia nelle proprie capacità e in quelle del proprio bambino significa avere la pazienza di aspettare.

Mi viene in mente una metafora culinaria: per fare un buon dolce a volte bisogna aspettare una lunga lievitazione prima di metterlo in forno, ma gli ingredienti buoni sono già tutti lì amalgamati insieme.

Oggi siamo nell’epoca del tutto pre cotto e congelato e si fa fatica a pensare di aspettare.

In più i genitori adottivi si sentono l’obbligo di riparare le ferite dei propri bambini più in fretta possibile in modo da farli stare bene e che possano dimenticare il passato o almeno il dolore collegato ad esso.

La parola aspettare per le famiglie adottive evoca senz’altro sensazione spiacevoli, ma così come nell’attesa, non è un aspettare vuoto, è un aspettare che piano piano ciò che stiamo facendo insieme assuma un significato condiviso.

Questo è il compito principale del genitore, accettare lui per primo che il legame di attaccamento non è un interruttore che si accende (o si spegne), autorizzarsi a essere spaesato e a poterlo condividere con le persone giuste a partire dal partner, autorizzare il figlio a esprimere la propria confusione. Ascoltarsi e ascoltare, osservarsi e osservare, facendo attenzione a non proiettare sul bambino significati della propria storia o propri bisogni.

L’adulto si assume la responsabilità di autorizzare sé stesso ed il bambino a essere autentici, senza recitare il ruolo del bravo genitore perfetto e senza obbligare il bambino a fare altrettanto. La seconda grande responsabilità che si assume l’adulto in veste assoluta di genitore è trasmettere il messaggio “ ce la facciamo insieme, io ti guido ma la strada la stiamo costruendo insieme”.

Per essere il nome di un dolce a lunga lievitazione è un po’ lungo, io preferisco “ stiamo imparando a volerci bene”.

dott.ssa Paola Gambini- psicologa psicoterapeuta